RICHARD WRIGHT
L’ANIMA SILENZIOSA DEI PINK FLOYD

Tastierista, compositore e voce discreta dei Pink Floyd, Richard Wright ha tessuto l’atmosfera sonora della band con eleganza e profondità. Scopri la sua storia, la sua musica e il suo lascito immortale nel mondo del rock.

David Gilmour Pink Floyd

Richard Wright: il cuore armonico dei Pink Floyd

Tra i grandi nomi che hanno definito il suono inconfondibile dei Pink Floyd, Richard Wright occupa un posto essenziale, sebbene spesso meno visibile rispetto ai suoi compagni di band. Tastierista, compositore e voce delicata, Wright ha rappresentato la colonna sonora emotiva e atmosferica della band, contribuendo in modo decisivo alla costruzione di quel paesaggio sonoro che ha reso immortali album come The Dark Side of the Moon, Wish You Were Here e Meddle.

Con il suo stile lirico e introspettivo, capace di fondere jazz, musica classica e psichedelia, Wright ha arricchito l’universo floydiano di profondità e colore. Ma chi era veramente Richard Wright? E quale fu il suo percorso all’interno e al di fuori dei Pink Floyd?


Gli inizi: Londra, jazz e sogni sperimentali

Richard William Wright nasce a Londra il 28 luglio 1943. Cresce in un ambiente sereno della middle class britannica, mostrando fin da giovanissimo un interesse naturale per la musica. All’età di 12 anni inizia a studiare pianoforte, per poi affascinarsi al mondo della tromba e alla musica jazz, che lo influenzerà per tutta la carriera.

Nel 1962 si iscrive alla Regent Street Polytechnic, dove incontra Roger Waters e Nick Mason. Insieme formano i Sigma 6, una delle incarnazioni primordiali di quella che diventerà la leggenda dei Pink Floyd. In questo periodo Wright suona tastiere rudimentali, ma dimostra già una sensibilità particolare nella scelta dei suoni e nella costruzione delle atmosfere.

Affascinato dalle nuove tecnologie musicali e dalla psichedelia nascente, è tra i primi in Inghilterra a sperimentare con strumenti elettronici come l’organo Farfisa e il sintetizzatore EMS VCS3, diventando presto una figura centrale per l’identità sonora del gruppo.

L’era Barrett e l’esplosione psichedelica

Con l’arrivo di Syd Barrett alla guida creativa del gruppo, i Pink Floyd iniziano a emergere sulla scena londinese underground come band d’avanguardia psichedelica. Richard Wright, con i suoi tappeti sonori e i suoi arrangiamenti modali, è fondamentale per dare forma a questa nuova identità musicale. È lui, ad esempio, a creare le atmosfere rarefatte e quasi oniriche che caratterizzano il primo album della band: The Piper at the Gates of Dawn (1967).

Nel brano Astronomy Domine, le tastiere di Wright si alternano tra colpi spaziali e armonie lisergiche, delineando un paesaggio alieno che diventa subito marchio di fabbrica del gruppo. La sua mano è evidente anche in Interstellar Overdrive e in Matilda Mother, dove dimostra di essere già molto più che un semplice accompagnatore. Wright è, in quel momento, uno dei veri motori della psichedelia sonora del gruppo.

Ma l’instabilità mentale di Barrett porta presto a un cambio di rotta. Con l’ingresso di David Gilmour, la band entra in una nuova fase: più coesa, meno improvvisata e sempre più concentrata sulla ricerca di una forma musicale articolata e concettuale. In questa trasformazione, Wright si rivela ancora una volta fondamentale.


La maturità artistica: Meddle, Dark Side e Wish You Were Here

Tra il 1971 e il 1975, Richard Wright attraversa il periodo più prolifico della sua carriera nei Pink Floyd. È lui a scrivere gran parte delle sezioni strumentali di Meddle (1971), in particolare il capolavoro Echoes, brano di oltre 23 minuti che rappresenta la perfetta sintesi tra psichedelia, rock e sperimentazione ambientale. Il suo contributo con l’organo Hammond e il piano elettrico Rhodes dà profondità emotiva e dinamismo al pezzo, rendendolo una delle composizioni più amate della band.

Con l’uscita di The Dark Side of the Moon (1973), Wright tocca l’apice. Il suo tocco raffinato si percepisce ovunque: dalle armonie sognanti di Us and Them alle atmosfere sospese di Breathe, fino al finale catartico di The Great Gig in the Sky, che Wright compone interamente e che diventa una delle gemme più iconiche dell’album.

Anche nel successivo Wish You Were Here (1975), Wright gioca un ruolo chiave, in particolare nella suite Shine On You Crazy Diamond, tributo struggente a Syd Barrett. Le sue tastiere eteree, l’uso magistrale del sintetizzatore e la sua sensibilità melodica donano al brano un’aura di malinconica bellezza che lo rende eterno.

Declino e oscuramento: l’era Animals e The Wall

Dopo il successo straordinario di Wish You Were Here, le dinamiche interne ai Pink Floyd iniziano a cambiare drasticamente. Roger Waters assume sempre più controllo creativo, relegando progressivamente gli altri membri a ruoli secondari. Richard Wright, in particolare, viene messo all’angolo durante la lavorazione di Animals (1977), un album duro, critico e dominato dalla visione cinica e politica di Waters.

In Animals, il contributo di Wright è ridotto al minimo, e le tensioni con Waters diventano sempre più evidenti. Il colpo più duro arriva durante la produzione di The Wall (1979): Waters, esasperato dall’atteggiamento distante di Wright e insoddisfatto della sua produttività, impone le sue dimissioni. Per poter completare il tour, Wright accetta di suonare come musicista pagato, non più come membro della band. È un’umiliazione che segna profondamente la sua vita artistica e personale.

Paradossalmente, Wright è l’unico a trarre profitto economico dal tour di The Wall, poiché non partecipando più agli utili della band, percepisce uno stipendio fisso mentre gli altri membri si fanno carico dei costi esorbitanti della produzione.


L’allontanamento e la rinascita: anni ’80 e “The Division Bell”

Dopo The Wall, Wright vive un lungo periodo di riflessione e isolamento. Pubblica nel 1978 il suo primo album da solista, Wet Dream, un lavoro intimo e sperimentale che però passa quasi inosservato. Negli anni successivi, le relazioni con gli altri membri restano fredde, e solo con l’allontanamento di Waters dalla band, nel 1985, si apre una nuova possibilità di ritorno.

David Gilmour, ora leader del gruppo, lo reintegra gradualmente. Wright suona nel tour di A Momentary Lapse of Reason (1987), ma non viene accreditato come membro ufficiale fino a The Division Bell (1994), dove è nuovamente parte integrante del processo creativo. In questo album, Richard Wright firma e canta Wearing the Inside Out, brano malinconico e introspettivo che riflette i suoi anni di silenzio e alienazione.

Con The Division Bell, Wright ritrova finalmente il suo posto nella band. Le sue tastiere tornano protagoniste, con atmosfere dilatate, arpeggi liquidi e armonie ricercate che contribuiscono a riportare il sound dei Pink Floyd verso l’eleganza e la spiritualità degli anni ’70.

Carriera solista: tra introspezione e sperimentazione

Al di fuori dei Pink Floyd, Richard Wright ha sempre mostrato un lato più riservato e meditativo, spesso riflesso nelle sue produzioni soliste. Il suo primo album, Wet Dream (1978), è un’opera di grande delicatezza, con atmosfere rarefatte e brani strumentali che mettono in luce la sua abilità melodica e il suo senso dell’equilibrio sonoro. Nonostante non abbia ottenuto un successo commerciale significativo, il disco è oggi rivalutato come un piccolo gioiello ambient-prog.

Nel 1996 pubblica, con l’aiuto del musicista Dave Harris sotto lo pseudonimo “Zee”, l’album Identity. Si tratta di un lavoro elettronico e sperimentale, fortemente segnato dai sintetizzatori digitali tipici degli anni ’80. Nonostante le buone intenzioni, l’album riceve critiche contrastanti e viene presto dimenticato. Wright stesso si dichiarò in seguito poco soddisfatto del risultato.

Ma è con Broken China (1996) che Richard Wright compie il suo capolavoro solista. L’album, ispirato alla depressione della sua seconda moglie, è un viaggio sonoro oscuro e toccante, con testi profondi e arrangiamenti raffinati. La voce femminile di Sinéad O’Connor in alcuni brani aggiunge ulteriore intensità emotiva. Broken China è un’opera concettuale che mostra Wright come autore maturo e consapevole, capace di esprimere il dolore attraverso una musicalità elegante e mai sopra le righe.


L’ultimo atto con i Pink Floyd

Dopo The Division Bell, i Pink Floyd si ritirano gradualmente dalle scene. Wright continua a collaborare con David Gilmour, partecipando al suo album solista On an Island (2006) e al relativo tour, dove il tastierista torna a esibirsi dal vivo con grande entusiasmo e lucidità.

Nel 2005, in occasione del concerto benefico Live 8, Richard Wright torna sul palco con Gilmour, Mason e lo stesso Roger Waters, per un’ultima, commovente reunion dei Pink Floyd nella loro formazione classica post-Barrett. È un momento storico, trasmesso in mondovisione, che segna il ricongiungimento simbolico dopo anni di tensioni e silenzi.

Nel 2007 partecipa anche a una performance acustica di Gilmour al Mermaid Theatre e resta coinvolto fino agli ultimi mesi di vita nei progetti musicali dell’amico e collega. La sua morte, avvenuta il 15 settembre 2008 per un cancro, scuote profondamente il mondo della musica. Gilmour lo saluterà con parole commosse: “Era il cuore silenzioso dei Pink Floyd”.

L’eredità di Richard Wright

Richard Wright è stato forse il più sottovalutato dei membri storici dei Pink Floyd, ma il suo ruolo è stato essenziale per la costruzione del loro inconfondibile universo sonoro. Il suo contributo non era mai invadente, ma imprescindibile: un tessuto armonico costante, una cornice emotiva su cui si innestavano le idee visionarie di Waters e gli assoli lirici di Gilmour.

Brani come “Us and Them”, “The Great Gig in the Sky”, “Echoes” e “Shine On You Crazy Diamond” sono impensabili senza il suo tocco, le sue progressioni accordali, la sua sensibilità quasi classica nell’uso di organi, pianoforti e sintetizzatori. Wright non cercava mai il protagonismo: si poneva sempre al servizio della musica, della sua atmosfera, della narrazione.

Il suo stile, caratterizzato da una straordinaria delicatezza, era capace di evocare emozioni complesse con poche note. Più vicino al jazz e alla musica colta che al rock puro, Richard rappresentava l’anima riflessiva e sognante dei Pink Floyd, un contrappunto essenziale all’irruenza politica di Waters e alla forza espressiva di Gilmour.


Un tributo doveroso

Dopo la sua scomparsa, la sua figura è stata progressivamente riscoperta e rivalutata. David Gilmour gli ha reso omaggio nel suo album Rattle That Lock, sottolineando quanto fosse importante per l’equilibrio del gruppo. Lo stesso Nick Mason, nella sua band “Saucerful of Secrets”, ha riportato in luce molti brani composti da Wright durante gli anni psichedelici, facendo emergere l’originalità del suo contributo anche nelle fasi meno note della carriera floydiana.

Oggi, a distanza di anni dalla sua morte, Richard Wright viene ricordato come uno dei più grandi tastieristi della storia del rock, un poeta della tastiera capace di trasformare ogni nota in emozione. La sua musica continua a risuonare nelle orecchie e nei cuori di milioni di fan, come un’eco lontana e malinconica che non smetterà mai di parlare.

Richard Wright non è mai stato solo un accompagnamento, ma un linguaggio, un’atmosfera, un modo di sentire il suono. Un artista silenzioso, che ha lasciato un segno indelebile nella storia della musica contemporanea.